Una riflessione di Sussanna Camusso Segretaria della CGIL
Oggi le cronache si riempiranno di statistiche e di retoriche, dei numeri terribili e non degni di un Paese civile e democratico, della violenza maschile contro le donne: i femminicidi riconosciuti e non, che scandiscono la nostra quotidianità.
Qualcuno ricorderà con toni più o meno accorati le inchieste sulla prostituzione minorile. E tra i tanti desideri malati di quelle ragazze ci si perderà in analisi che dimenticano il vero centro della questione: i clienti. Si offrirà il tema della libertà mercificata, di ambizioni tristi e di disagio, ma occultato sullo sfondo, mai illuminato, resta il non detto della violenza: la sessualità maschile, la sua espressione egoistica nel possesso, l’idea di proprietà come affermazione di sé.
La proprietà materializza e oggettivizza. Spariscono pensiero, sentimenti, idee, ambizioni e desideri. Rimane il «sei mia proprietà» e come tale un essere non pensante che deve «obbedire», quando non prevenire ogni minima esigenza del «sovrano». Quella straordinaria rivoluzione pacifica che è la liberazione delle donne si tramanda nello slogan «io sono mia», che ha in sé la rivendicazione fondamentale dell’essere persona che sceglie, decide, esiste, pensa, ama e cerca relazioni.
Un’idea di relazione che intreccia molti modi, certo anche quello del conflitto. Il conflitto spaventa, agita la paura della frattura, della solitudine, della perdita. Bisogna imparare (si può) a governarlo. Ma ciò presuppone rispetto e riconoscimento. Rapporto fra pari. I tanti divari che ancora permangono, i pregiudizi e le discriminazioni nei confronti delle donne, ovviamente, favoriscono quel non riconoscimento. Fanno attardare nell’idea che essere riconosciute vuol dire diventare uguali, come se esistesse un modello perfetto cui adeguarsi e da imitare.
Proprio in questa difficoltà, nel riconoscere il diverso e il suo valore, si annida la realtà del non vedo, ma voglio e possiedo. Strada ne abbiamo fatta molta. Più di quella che i numeri, drammatici, farebbero pensare. Abbiamo conquistato parola e scena pubblica. Cominciamo a cancellare l’autocensura, a valutare il silenzio per quello che è e indichiamo i traguardi per superarlo. Non ci possiamo accontentare, non possiamo restare inerti di fronte a chi denuncia ed è lasciata sola o a chi non denuncia perché ormai sopraffatta da sensi di colpa o paure per sé e per i propri figli.
Non ci possiamo accontentare di un mondo che non educa, non previene, non sceglie di offrire una tutela forte alle vittime di violenza. Che non decide di dare un livello essenziale di assistenza, che è anche di democrazia, fatto di salute fisica e psichica, di lavoro e di case sicure. Per questo, anche oggi, ribadiamo le necessità di leggi, cultura e educazione. Per questo anche oggi vorremmo parlare di democrazia e di libertà, di donne vive, che non vogliono essere vittime e cercano risposte perché sanno che la violenza contro di loro è una sconfitta per tutti. Lo facciamo guardando, per le strade, tra i tanti manifesti, quelli di «noino.org» che ci dicono come le nostre parole non sono vane, che è possibile, che si può progettare e vivere in un mondo dove la libertà delle donne è metro di misura della democrazia.
E dunque immaginare un mondo che non nasconde le donne nelle mura di casa, nella «sacralità» della famiglia senza il coraggio di vedere come questa possa diventare violenta prigione. Un mondo che non considera il linguaggio sempre svincolato dai messaggi che trasmette. Un mondo di donne e di uomini liberi.